Mattia Caldara, 19 milioni più bonus. Alessandro Bastoni, 11,1 milioni. Andrea Conti, 24 milioni. Roberto Gagliardini, 20,4 milioni. Franck Kessie, 32 milioni. Andrea Petagna, 15 milioni. Bryan Cristante, 26 milioni. Gianluca Mancini, 15 milioni più bonus. Timothy Castagne, 24 milioni. Musa Barrow, 13 milioni. Senza contare i 35 milioni di Dejan Kulusevski e quelli che entreranno per altri calciatori ceduti con obbligo di riscatto.
Gian Piero Gasperini è davvero Re Mida. Da quando il tecnico piemontese si è seduto sulla panchina dell’Atalanta, la società bergamasca ha incassato oltre 200 milioni dalle cessioni dei suoi calciatori. E nonostante spesso e volentieri abbia lasciato andare pedine importanti, la Dea è andata in crescendo, fino ad arrivare ai quarti di finale di Champions League e a sognare lo Scudetto. Per ogni calciatore di livello che è andato via, ne è spuntato un altro nello stesso ruolo, con il valore tecnico della squadra che non è mai sceso.
Non si può invece dire lo stesso per molti dei calciatori menzionati nella lunga lista delle cessioni. Spesso e volentieri, chi lascia Bergamo fallisce. O almeno, non rende bene come faceva all’Atalanta. Fa certamente eccezione Bastoni, che all’Inter ha regalato prestazioni così convincenti da spingere Antonio Conte a lasciare fuori Skriniar e a non disperarsi per la voglia di cambiare squadra di Godin.
Kessie, uno dei primi ad andarsene, al Milan è stato molto discontinuo, alternando momenti di forma straordinari a mesi di profonda involuzione. Caldara è stato sfortunato visti gli infortuni che lo hanno condizionato, ma per tornare se stesso (e non è un caso) ha dovuto rimettere piede a Zingonia. A
Anche Conti ha pagato pegno alla cattiva sorte, ma non ha mai del tutto convinto a Milanello. E ancora Cristante, che nel centrocampo della Roma a volte sembra un pesce fuor d’acqua o Gagliardini, che per anni la curva dell’Inter ha fischiato come fosse il peggiore dei bidoni.
Rendimento diverso
E la domanda dunque si pone: perché chi lascia l’Atalanta non rende altrove? Gasperini ha per caso la pozione magica in grado di trasformare dei bidoni in campioni, che una volta salutata Zingonia tornano nella mediocrità? Certamente no. Anche se, in un certo senso, è proprio così. Semplicemente, il tecnico della Dea è il miglior valorizzatore della Serie A. Un allenatore capace di tirare fuori, attraverso la preparazione fisica, il sistema di gioco e il lavoro psicologico, il massimo dai propri calciatori.
Un vero e proprio mago, capace come pochi di far rendere al massimo una squadra. Perché è proprio di squadra che si parla, piuttosto che di rendimento individuale. Certo, i vari Gomez, Zapata o Gosens spiccano, ma il segreto di Gasp è il gioco corale. Quando si parla di lui con i calciatori, il coro è pressoché unanime: “sappiamo sempre cosa dobbiamo fare e dove dobbiamo andare”.
Dunque, organizzazione, il segreto di ogni azienda o gruppo vincente. Il gioco di Gasperini, l’ossessivo uno contro uno in ogni posizione del campo, è dispendioso e a volte apre il fianco a rovesci del tutto inattesi. Ma è studiato alla perfezione per far risaltare le doti del singolo, a cui l’allenatore cuce addosso un ruolo tutto suo, che il giocatore interpreta con naturalezza.
Fuori da Bergamo
Quando però si lascia l’Atalanta, non è detto che tutti gli allenatori siano in grado (o abbiano voglia) di trovare la posizione giusta per il calciatore in questione. Da questo punto di vista è esemplare l’esperienza di Cristante. A Bergamo, da trequartista moderno, tutto primo pressing e inserimenti, l’ex Milan era devastante in attacco grazie alle sue incredibili doti aeree ed era fondamentale nel sistema difensivo andando a disturbare la partenza della manovra avversaria.
A Roma, da mezzala, spesso e volentieri soffre e perde la posizione, così come quando viene schierato da terzo centrale in una retroguardia a tre.
E poi il segreto più evidente ma difficile da emulare: il collettivo. L’Atalanta gioca di squadra, nel vero senso del termine. Automatismi, coperture, distanze, scambi di posizione, in un turbinio che a volte ricorda il Foggia di Zeman(come quando Toloi, un centrale difensivo, si è trovato in campo aperto contro il Paris Saint-Germain mentre la Dea era ancora in vantaggio).
E poi il mutuo soccorso, mai troppo sottolineato da Gasperini. Del resto, nel momento in cui la squadra accetta l’uno contro uno, ci sta che il singolo duello a volte si perda. Ma proprio nel momento in cui un calciatore è superato dal suo diretto avversario, di norma ne spuntano altri due che vanno sulla seconda palla e, spesso e volentieri, la riconquistano. Un qualcosa che per forza di cose, quando i calciatori di Gasperini si trovano in grandi squadre, avviene di rado.
Persino in una nazionale organizzata come la Germania, Gosens in Nations League ha faticato a trovare la quadra, visto che quando avanzava difficilmente si poteva chiedere ai suoi compagni della catena di sinistra (Sule o Rüdiger, Kroos e Werner) lo stesso lavoro che fanno Djimsiti, De Roon e Papu Gomez.
E non è un caso che con un allenatore come Conte, dai principi di gioco non così diversi di quelli di Gasp, Bastoni abbia mantenuto le promesse e che persino Gagliardini, che nelle ultime stagioni era diventato un esubero, è stato in grado (al netto di alcune prestazioni non proprio positive) di ritagliarsi il suo spazio nell’undici dell’Inter, anche nell'avventura tedesca di Europa League.
Lo stesso Barrow, complice la…cura Mihajlovic, sta facendo bene al Bologna, una squadra dove i compagni si aiutano su ogni pallone. Va peggio a chi si trova in altre squadre in cui il collettivo non è oliato come quello dell’Atalanta o in cui il gioco di squadra a volte viene accantonato per prediligere l’invenzione del singolo. Ma del resto, non si può pretendere di replicare alla lettera tutto quello che viene creato dalle parti di Zingonia. Di Atalanta, in fondo, ce n’è una.
*L'immagine di apertura dell'articolo è di Antonio Calanni (AP Photo).