Campione d’Italia, d’Europa e del Mondo. Il premio “Gaetano Scirea” per la Carriera Esemplare, il rispetto di tantissimi tifosi in giro per lo stivale e persino una candidatura a sindaco. Eppure, strano a dirsi, Pietro Vierchowod è sottovalutato.
Quando si stilano le classiche graduatorie che premiano i migliori calciatori di una determinata epoca, lo Zar non fa spesso capolino quanto dovrebbe. Forse perché nella sua lunghissima avventura, cominciata a sedici anni con la Romanese e terminata quando ne aveva 41 a Piacenza, di epoche Vierchowod ne ha vissute anche troppe. “Ho giocato contro Boninsegna e contro Shevchenko”, ha spiegato più volte. E contro entrambi ha messo bene in chiaro perché lo chiamassero lo Zar.
Per le origini ucraine, vero. Ma non è solo la storia familiare a validare un soprannome che è nella storia del calcio italiano. Come ogni Zar che si rispetti, in campo Vierchowod regnava eccome. Comandava la difesa, da buon figlio di soldato. E soprattutto imponeva la sua legge, quella del più forte (ma anche del più rapido) contro qualsiasi avversario si trovasse davanti. E poco importa che la carta di identità segnasse sedici o quaranta primavere, chi lo ha affrontato se lo ricorda benissimo.
Platini, Maradona, Van Basten, Ronaldo il Fenomeno. Questo il valore di chi domenica dopo domenica cercava di superare Vierchowod. E non sempre ci riusciva, anzi. Già ai tempi del Como, che lo acquista nel 1976, si capisce che quel ragazzo ha qualcosa di speciale. La squadra lombarda, anche grazie a lui, parte dalla C1 e arriva fino alla Serie A.
Ad ammirarlo c’è un grandissimo intenditore di calcio, Paolo Mantovani, che lo vuole per la sua Sampdoria. Il problema è che i blucerchiati in quel momento sono in Serie B, quindi il presidente, dopo averlo comprato, lo gira in prestito. Nella stagione 1981/82 è alla Fiorentina, che non per caso arriva seconda, contendendo lo Scudetto alla Juventus fino all’ultima giornata. In quella successiva si rifà, vincendo il tricolore da protagonista con la Roma di Liedholm, uno che il talento sa riconoscerlo molto bene. E nel frattempo, seppure da riserva, lo Zar sale sul tetto del mondo con la nazionale di Bearzot.
UNA COLONNA NELLA SAMP
Nel 1983 però la Samp decide che non è più il momento dei prestiti e lo richiama alla base. Della Doria diventa una vera e propria bandiera, passando in blucerchiato dodici stagioni e giocando praticamente sempre. Non per niente, lo Zar è secondo solo a un’altra leggenda del club, Roberto Mancini, come presenze: 493 tra campionato e Coppe Europee. Già, le coppe. Lo Zar decide che, visto che il campionato italiano e quello del mondo l’ha già vinto, è il caso di dedicarsi all’Europa. La Samp, del resto, vince nella sua storia quattro volte la Coppa Italia proprio nei dodici anni di militanza di Vierchowod.
La vecchia Coppa delle Coppe, dunque, diventa una seconda casa e il difensore la porta a casa nel 1990, vincendo la finalissima contro l’Anderlecht, dopo che nella stagione precedente i blucerchiati erano stati fermati solo all’ultimo atto dal Barcellona di Cruijff.
A quella Samp manca quindi solo l’affermazione casalinga, che non tarda ad arrivare. Il campionato 1990/91 è leggendario, perché tra il Milan degli olandesi, l’Inter dei tedeschi e il Napoli di Maradona, lo Scudetto lo vince… la Sampdoria di Boskov. E di Vialli, Mancini, Pagliuca, Katanec, Lombardo, Cerezo. Senza dimenticare Vierchowod, che è sempre stato un difensore con il vizio del gol, ma che stavolta ne fa tre e tutti a fine campionato. La rete alla “sua” Roma alla ventinovesima giornata è una pietra fondamentale del trionfo dei doriani.
L’apoteosi potrebbe esserci a Wembley, un anno più tardi. Ma il Barcellona si conferma bestia nera per la Sampdoria, che si arrende in finale di Coppa dei Campioni solo ai supplementari, quando un missile terra-aria di Ronald Koeman spedisce il trofeo in Catalogna.
ALTRE PIAZZE, ALTRI SUCCESSI
Quando nel 1995 si interrompe la storia d’amore con i blucerchiati, si potrebbe pensare che la carriera dello Zar stia volgendo al termine. La carta di identità segna 36 primavere, ma questo non conta nulla per Vierchowod, che riceve una chiamata importante: quella della Juventus di Lippi. In bianconero il centrale resta una sola stagione, si adatta rapidamente ad un sistema difensivo diverso, e porta a casa il gioiello che manca alla collezione: la Champions League, vinta da protagonista nella finale di Roma contro l’Ajax.
La Signora lo lascia libero e il difensore si accorda con il Perugia, ma visti i dissidi con Galeone rescinde immediatamente il contratto e firma con il Milan per sostituire l’infortunato Baresi. Potrebbe finire qui, ma c’è ancora il colpo di coda. A quasi trentotto anni, lo Zar si regala l’ultima esperienza, quella a Piacenza. Tre stagioni in cui, contro i ragazzini terribili (Ronaldo, Vieri, Totti, Inzaghi) il grande vecchio difende e si difende ancora benissimo. Al suo ritiro, è il secondo calciatore per presenze in Serie A, con 562 partite.
Sottovalutato, dunque? Sì, perchè l’abbondanza di vincitori fortissimi lo ha sempre un po’ messo in ombra, come dimostra l’esperienza in nazionale. Per lui 45 presenze, non poche, ma neanche molte in relazione al valore e alla carriera. In Spagna nel 1982 ha davanti Scirea e Gentile, in Messico nel 1986 è tra i titolari, ma la nazionale di Bearzot crolla e Vicini non lo convocherà per quattro anni.
Torna in azzurro nel 1990, in tempo per partecipare alla World Cup casalinga, ma anche in quel caso la difesa è blindata da Baresi e Ferri e allo Zar non resta che fermare Lineker nella finalina di Bari. Vierchowod paga parecchio il dualismo con Kaiser Franco, che potrebbe sostituire nel 1994 quando il milanista si fa male nella fase a gironi. Ma Pietro negli USA non c’è, perchè non voleva sperare negli infortuni altrui per essere protagonista. Il che dice tutto: se non può regnare, uno Zar non è se stesso…